Racconto: “Dietro al tramonto il buio” di Luca Bettega


DIETRO AL TRAMONTO IL BUIO
Vecchio di merda!
Il tuono che esplose muto nella sua mente adirata e confusa, prese bruscamente volume nel tonfo sordo del bagnoschiuma al contatto con il bianco liscio della superficie delle piastrelle. Subito dopo l’urto contro la parete, il flacone disegnò una breve parabola nella direzione del mittente, da cui pareva voler tornare. La gravità ne stroncò sul nascere le intenzioni, ponendo termine al moto del contenitore in un secondo, più lieve tonfo, questa volta sulle piastrelle ruvide del pavimento.
– Sei solo un vecchio di merda… –
Le parole questa volta acquisirono sonorità nella voce tenuta bassa, come se avessero terminato la loro corsa contro un ipotetico pavimento disteso a sostenere il gomitolo aggrovigliato dei pensieri dell’uomo. Un pavimento che gli era sempre parso di pietra dura e ben levigata, marmo o persino granito. E ora, grazie a quel cadavere con un piede nella fossa, gli sembrava di passeggiare su quattro assi scricchiolanti, all’interno di una lussuosa villa che si era improvvisamente tramutata in una stamberga pericolante.
L’idea di una sua non solidità o, peggio ancora, di essere sfiorato dal concetto di vulnerabilità, si insinuò nel suo cranio in maniera tanto pesante da precipitare immediatamente giù, in direzione del petto, che pulsava vorticosamente al ritmo della sua tensione e della sua…
Paura?
Davvero non lo sapeva e non aveva interesse alcuno a trovare un nome alle fastidiose emozioni che stavano scegliendo il suo cervello come terra in cui accamparsi e trovare ristoro.
Nutriva solamente il desiderio che quella tempesta, allo stesso modo in cui gliele aveva incollate addosso, se le riprendesse spazzandole di nuovo via. Lontano…molto lontano.
Sollevando la leva del miscelatore sperò che l’acqua, iniziando a defluire fresca e abbondante dalla doccia, potesse in qualche modo dare una mano a quella tormenta liberatrice di cui sentiva davvero il bisogno. Via tutta quella stanchezza, quella sporcizia che lo logorava fuori e dentro la carne; via il sudore, il puzzo emanato dal suo corpo accaldato e sfinito; e soprattutto via al fetore nauseante di tutti quei pensieri di merda.
Finito il temporale, ne era certo,
ne era certo?
di nuovo il sole.
Stavano prendendo forma le prime timide pennellate di rosa in quel cielo che, con lo scorrere dei minuti, pareva essere accompagnato dalla promessa di offrirsi a cornice di un tramonto d’autore, quando l’uomo decise di lasciarsi alle spalle il monolocale. Imboccò con passo sostenuto il sentiero che lo avrebbe portato a dominare dall’alto Ventimiglia, il mare e l’intera linea dell’orizzonte che si perdeva ad Ovest.
In realtà buona parte del panorama verso il quale si stava per affacciare era ben visibile dalla terrazza di casa, eccezion fatta per la linea tracciata all’orizzonte dal mare, la cui traiettoria retta veniva di colpo spezzata dalle dolci pendenze collinari che salivano fino a raggiungere le mura dell’antico Castello di Appio.
Chi si accontentava di accompagnare con lo sguardo il sole, con la luce ancora carica del giorno, ad addormentarsi dietro la collina, poteva tranquillamente rimanere appoggiato alla ringhiera del suo balcone. Chi invece desiderava assaporare i riflessi ambrati mescolarsi all’azzurro limpido del cielo e a quello lievemente più scuro del mare, in cui l’ultimo sole sarebbe lentamente affondato, doveva per forza di cose percorrere quella via stretta che si perdeva nella vegetazione boschiva.
Questo quantomeno era nell’immaginario dell’uomo nel momento in cui, superando gli ultimi alberi, sbucò sopra uno spiazzo di terra che si sporgeva dal colle a realizzare un balcone naturale.
Il mondo sotto ai suoi piedi, pensò l’uomo noncurante del leggero arco formato dalle labbra, a tracciare un sorriso sottile.
Il mondo ma non il sole, visto che anche da quella postazione la dispettosa palla infuocata avrebbe chiuso la sua parabola discendente infrangendosi sulle ondulate pendenze di una nuova collina, che si frapponeva tra lui e il mare.
Si accorse con stupore, immediatamente seguito dalla sensazione di essere piuttosto idiota, che in quella zona avrebbe potuto scegliere qualsivoglia posizione, ma alla fine il sole sarebbe sempre e comunque andato a dormire dietro al continente.
Il tramonto sul mare poteva dunque scordarselo. Al più, continuando a camminare gli sarebbe rimasto l’auspicio di vedere il sole chiudere il suo cammino su suolo francese, anziché italiano.
Optò per una soluzione patriottica e che salvaguardasse pigrizia ed energie, restando dove si trovava, seduto su una possente pietra ben conficcata nel terreno arido.
Le luci artificiali di Ventimiglia Alta e della strada che costeggiava quel tratto di litorale ligure, erano già tutte accese, a confondersi con l’illuminazione naturale dei raggi di un sole che pareva non avere ancora troppa voglia di spegnersi.
Il caldo era stato piuttosto torrido quel giorno e aveva deciso di rientrare dalla spiaggia quando il pomeriggio era da poco iniziato, nonostante fosse il primo giorno trascorso al mare dopo anni di città, lavoro, uscite con gli amici (e con amiche che non faticava a trovare all’occorrenza), saltuarie escursioni e di nuovo città.
Aveva acquistato quel monolocale “collinare, meravigliosa vista mare” grazie alle pressioni di un collega con cui aveva diviso le spese.
– Né tu né io ci passeremo mai tutta l’estate – gli aveva detto l’amico – Tanto vale che la prendiamo in società e ci trascorriamo le ferie un po’ per uno –
Non sapeva bene perché alla fine aveva accettato. Forse perché era davvero da tanto che non si concedeva una vacanza come si deve, e il possedere una mezza-casa in Liguria era di sicuro un buon pretesto per farla. O più semplicemente perché non aveva avuto tempo e testa per rifletterci in quel momento ed il prezzo in questione era davvero irrisorio.
Di fatto ora si trovava lì, a poche centinaia di metri dal suo monolocale, su un grosso sasso, seduto ad osservare il mondo in attesa che inglobasse quella gigantesca moneta arancione allo stesso modo in cui l’erogatore automatico fuori dall’ufficio faceva sparire ogni giorno cinquanta centesimi dalle sue tasche.
Sorrise immaginando che, dopo aver accettato quella fiammante immensa moneta, l’orizzonte ringraziasse facendo sorgere uno stratosferico bicchierone di plastica colmo di caffè fumante.
Con ancora stampato il sorriso, abbassò le palpebre per ricevere su tutto il volto i leggeri sbuffi di aria tiepida che giungevano da valle, in un timido risarcimento per la calura subita durante il giorno.
Tolto lo scandire dei movimenti della natura, il tempo sembrava davvero essersi fermato.
Trovò piacevole lasciare che la mente potesse finalmente divagare libera nell’immenso spazio dei suoi pensieri, puliti dall’inquinamento di una quotidianità che lo stava ingabbiando come un animale. Una quotidianità a cui si era abituato, ed adattato ovviamente, ma della quale avrebbe fatto volentieri a meno per qualche giorno.
L’atmosfera che respirava era tanto irreale da sembrare magica. Eppure così naturale.
Provò per un istante la sensazione che tenere gli occhi aperti o chiusi avrebbe portato comunque alla stessa scontata conclusione.
Un sogno.
– E’ proprio uno spettacolo il tramonto da qui… –
La voce del vecchio giunse tanto sottile e gradevole da non spezzare minimamente il senso di incantesimo che aleggiava nella testa dell’uomo, donandone piuttosto maggior vigore.
L’uomo cercò le pupille del vecchio, osservandole con espressione rilassata, quasi beata.
– Davvero… –
Ricondusse lo sguardo di nuovo verso l’orizzonte, che stava per essere baciato in quel preciso momento dal sole, il quale nel frattempo aveva assunto una tonalità di arancio che andava volgendo a un passionale rosso acceso.
– Sono arrivato fino a qui sperando di vedere il sole tramontare nel mare, invece lo ritrovo a perdersi dietro a quella collina. Ma devo riconoscere che l’atmosfera è comunque molto suggestiva –
Il vecchio schiuse le labbra senza separare gli occhi dallo spettacolo che la natura stava loro offrendo. Ne uscirono parole mescolate a un sorriso.
– Ne ho visti davvero tanti di tramonti da qui, ma mai uno che finisca col sole che arrivi a tuffarsi in mare. Se è questo che cercavi, hai sbagliato proprio posto ragazzo –
L’uomo ascoltò divertito, ma non rispose. Non ce n’era bisogno.
Fu di nuovo il vecchio a spezzare il silenzio, e ancora la sua voce parve un suono che non disturbava in nessun modo la natura circostante, come se ne facesse lui stesso parte; come se la musica emessa dalla sua bocca e quella suonata dalla natura fossero varianti della medesima sinfonia.
– Eppure, anche se la terra qui davanti ci limita il campo visivo sappiamo entrambi che dietro, molto più dietro, c’è il mare, e che proprio lì andrà a morire il sole –
L’indice della mano destra, puntato verso il tramonto si proiettò dalla parte opposta, in direzione del bosco, ma in realtà molto, molto più a est di quegli alberi.
– Sappiamo pure che da lì di nuovo sorgerà domani –
Il braccio tornò a posarsi sul fianco e gli occhi a fissare quel che rimaneva del sole.
– Ma quello che accade al sole tra quando muore e quando risorge, ahimè nessuno sulla terra lo sa –
Sta dall’altra parte della terra, coglione!
L’uomo si meravigliò di sentire con quanta celerità e lucidità quel pensiero gli si stampò in testa.
Il vecchio, che fino a quel momento gli era parso una naturale appendice del mondo, un tutt’uno col mare, la terra e il cielo, si stava rapidamente trasformando nel più patetico dei rompicoglioni.
Aveva colto immediatamente il taglio filosofico delle ultime parole del vecchio e non avrebbe sopportato nemmeno un momento di fronzoli filosofici o peggio ancora di sermoni religiosi sul senso dell’esistenza.
Perché esitiamo, perché moriamo… bla, bla, bla.
– Qualcuno direbbe che sono un coglione. So benissimo che il sole sta dall’altra parte del pianeta, quando qui è notte. Ovviamente mi riferisco a qualcosa di più alto. Ma tu sicuramente hai inteso –
Gli occhi dell’uomo si incrociarono con quelli del vecchio. Sorpresi i primi, severi i secondi. L’uomo si meravigliò nel sentire, dentro gli occhi del vecchio, i suoi stessi occhi. Osservandolo bene pensò che, messi davanti a quel anziano e al suo vero padre, probabilmente molti avrebbero scommesso che il padre autentico fosse quel vecchio, quello sconosciuto che stava iniziando sul serio a dargli sui nervi.
Se pensava di ammaliarlo per aver azzeccato il contenuto del suo ultimo pensiero, aveva preso un bel granchio. Chiunque gli avrebbe dato del coglione, e questo il suo interlocutore doveva saperlo bene. Probabilmente gli capitava ogni volta che iniziava i suoi strampalati discorsi da rimbambito preistorico.
Il vecchio non scostò lo sguardo serio da quello dell’uomo. Riprese la parola solo quando la carrellata di pensieri e insulti dell’uomo terminò, come se avesse ascoltato quel soliloquio mentale dall’inizio alla fine.
– Il tramonto arriva per tutti, prima o dopo. Ma non per tutti, finita la notte, giunge la luce di una nuova alba –
Nel petto dell’uomo un sussulto, seguito da un fastidioso formicolio; lo stesso che aveva avvertito qualche minuto prima all’altezza della spalla.
Ansia, paura, rabbia, frustrazione iniziarono a montargli dentro come panna acida, a rincorrersi velocemente come fili colorati che si intrecciano aggrovigliandosi l’un l’altro in un unico gomitolo molle ed informe. Confusione.
Non gli piaceva. Assolutamente quella sensazione non gli piaceva.
Si levò in piedi di scatto, quasi a sperare che quel movimento brusco potesse in qualche modo scrollargli di dosso la polvere creata da emozioni che non accettava e che uno stronzo al capolinea gli aveva scaraventato addosso.
Vecchio di merda!
Si tuffò di nuovo nel verde antico di quegli occhi, dentro un colore che pareva allo stesso tempo suo e altrui. Si sentiva così vicino e così distante da quella figura anziana che non smetteva di osservarlo e che in pochi minuti aveva riaperto considerazioni e riflessioni che lui aveva invece già chiuso da un pezzo. Argomenti sigillati, serrati con una chiave che era stata buttata chissà dove.
Dio, non Dio, la morte… bla bla bla… Erano argomenti affrontati a suo tempo.
Non lo riguardavano più.
Fine della storia.
Il senso se lo era trovato da solo, l’uomo. La vita non è altro che ciò che è, ciò che si sa e che si comprende. Tutto il resto non esiste… Se esistesse di sicuro Qualcuno si sarebbe preso la briga di farcelo capire.
Visto che nessuno lo aveva fatto fino ad ora, l’uomo avrebbe lasciato volentieri al vecchio ed ai suoi amici rincoglioniti il compito di prendere una strada che non arriva da nessuna parte.
Lui la sua strada l’aveva scelta e ci stava camminando sopra con fierezza.
Aveva da anni smesso di viaggiare in direzione di ciò che non si comprende, correndo invece verso ciò che è certo, conosciuto, sicuro. Il suo obiettivo era e sarebbe sempre stato la vita, la vita su questo pianeta e non su quelle misteriose strade che tanti promettono e nessuno ha mai vis…
– Io le ho viste –
Le quattro parole pronunciate dal vecchio soffiarono nella mente dell’uomo come se avessero da sempre abitato lì.
L’uomo le accolse chiudendo gli occhi come davanti a quell’aria fresca che aveva accettato con piacere in precedenza, ma subito si rese conto che quel tipo di brezza non era che il principio di una furente tempesta.
Il cielo sopra le loro teste era limpido, avvolto nell’arancione che si mescolava a un azzurro che a breve si sarebbe chiamato blu notte. Il cielo dentro alle loro teste si stava invece velocemente chiazzando di nubi grigie.
Vecchio di merda! Vecchio di merda! Vecchio di merda!
L’uomo concentrò di nuovo lo sguardo sul volto del vecchio, augurandosi che questa volta fosse davvero l’ultima.
Avrebbe tenuto per sé tutti gli insulti e le riflessioni del caso, limitandosi a guardare l’orologio puntando l’attenzione su quanto si era fatto tardi. Avrebbe salutato gentilmente e rinviato la piacevole conversazione alla prossima volta.
Mai più… Stronzo!
Il vecchio lo anticipò, nuovamente. Sorrise.
– Credo ti sia stancato di ascoltare le fandonie di un vecchio che spera di farti vedere cose che non vuoi vedere –
Ecco, bravo… Bravissimo, stronzo.
– Si sta facendo buio, tra poco sarà notte. Ora và –
Adesso mi dici anche quando devo andare a casa… Ma vaffanculo!
– Sì, direi che è meglio. Buona serata e grazie per la chiacchierata –
L’uomo era già girato in direzione del bosco, dentro il quale si stava per immergere, quando lieve lo raggiunse per l’ultima volta la voce del vecchio.
– Grazie a te. Mi sarebbe piaciuto rivederti ancora, ma non accadrà più –
Deo gratias!
Senza accorgersi l’uomo accelerò, calpestando il suolo con passo sempre più veloce, mentre in bocca masticava insulti e imprecazioni nella speranza che alleviassero quel sapore amaro e disgustoso che gli tormentava il palato.
Il gusto rancido della paura venne sostituito da quello più corposo dell’ira.
Avvertì le fiamme di un incendio avvampare dentro di lui. La paura venne definitivamente polverizzata dall’ira, che ora stava letteralmente bruciando anche tutto il resto.
Una doccia avrebbe di sicuro spento ogni fiamma di quel rogo.
Chiuse a chiave la porta d’ingresso, si spogliò rapidamente, infilandosi nella piccola stanza da bagno. L’ira aveva raggiunto picchi a cui non ricordava di aver mai assistito in passato.
I pensieri gli rimbalzavano da una parte all’altra del cranio come i macigni rotolanti di una frana.
Avvertì un urlo scuoterlo da dentro senza trovare via d’uscita nel suono della voce. Scagliò con violenza il bagnoschiuma contro la parete liscia.
Vecchio di merda!
Poi di nuovo silenzio, e acqua fresca, e silenzio.
Premette con cura il panno contro il volto umido un’ultima volta, prima di appoggiarlo sopra alla lavatrice, accanto alla schiuma da barba e alla lametta.
Si passò la mano destra sul mento lasciandola scorrere sulla superficie ruvida della barba. Usava generalmente radersi quotidianamente ma, almeno per quel giorno, l’abitudine sarebbe stata temporaneamente sospesa. Più forte era ora il desiderio di coricarsi davanti ad un vuoto programma in tv.
Avvicinò, facendoli cadere l’uno sopra l’altro, i due lembi dell’accappatoio aperto, bloccandoli con un nodo deciso della cintola all’altezza del ventre.
Scostò la porta scorrevole del bagno che si strinse in un movimento a fisarmonica, permettendogli di trovarsi davanti alla vista del bramato letto.
La sua mente, rigenerata dalla doccia, era tornata leggera e sicura. I pensieri aleatori che l’avevano fatto vacillare conducendolo sulla strada rovente dell’ira, parevano solo un lontano ricordo.
Adesso davanti a sé c’era semplicemente la vita, la sua, che avrebbe vissuto come voleva, con le sue regole, senza dover rendere conto a nessuno…tanto meno allo Zarathustra di Ventimiglia.
Lo standard della sua qualità di vita era facilmente individuabile. Un buono stato di forma fisica e di salute; una persona stimata al lavoro a apprezzata da amici e conoscenti. Non affogava nel denaro ma non gli mancavano certo i soldi, e per finire vantava un discreto successo con le donne.
Più che ad apprendere come vivere, avrebbe potuto tranquillamente insegnare come si fa a vivere, assorbendo il succo stesso dell’esistenza come una spugna, sorseggiandolo fino all’ultima goccia.
Se doveva recriminarsi qualcosa, al massimo si poteva rimproverare per aver dedicato troppo poco tempo alle vacanze negli ultimi anni. Del resto per arrivare dov’era arrivato qualche sacrificio era necessario. E poi, a partire da questa vacanza, stava iniziando a porre rimedio a quella carenza.
Mentre si stava piegando verso i piedi del letto, col braccio teso ad afferrare il telecomando, l’uomo avvertì la presenza del bambino.
Un’impercettibile vibrazione ascese dallo sterno alle tempie, per ripiombare di nuovo nel petto in un tonfo muto. Da qui una nutrita ciurma di formiche prese a muoversi in direzione della spalla.
Quando con gli occhi tentò di identificarlo, l’uomo venne colto da un ulteriore sussulto.
Il ragazzino, col sedere sprofondato nel divano posto sotto la tv a parete, si stava facendo passare da una mano all’altra alcune polaroid. Né infilò una sotto le altre per farne emergere una seconda, che osservò con sguardo basso e apparentemente indifferente per una manciata di secondi. Anche questa finì all’ultimo posto della pila per lasciar spazio ad una terza fotografia.
Il fanciullo, che poteva avere undici o dodici anni, non parve accorgersi della presenza dell’uomo nella stanza, o semplicemente la stava ignorando.
Continuò a rimanere chino e assente davanti alle istantanee che gli scorrevano all’altezza delle ginocchia nude, poco sopra le quali comparivano un paio di pantaloncini da calcio blu con una striscia laterale bianca. La parte superiore del corpo smilzo era coperta da una canottiera dello stesso colore dei calzoncini.
L’uomo restò ad osservarlo in silenzio per quasi un minuto, con le sopracciglia inarcate in un’espressione di sorpresa, avvolto dall’alone irreale in cui pareva essere stata immersa la sua abitazione.
Aveva dato d’istinto un’occhiata alla serratura dell’ingresso dalla quale, come ben ricordava, ciondolava il portachiavi argentato che teneva unite le tre chiavi del mazzo. Una di queste era infilata nella toppa a dargli conferma che la porta era stata chiusa.
Da dove cazzo è entrato questo?
Il senso di smarrimento iniziale venne accompagnato dal lento montare della rabbia e dal fastidio di non potersi concedere ancora un momento di sacrosanta solitudine, sul letto a rimbambirsi davanti a qualche programma insulso.
Prima il vecchio stronzo, adesso il moccioso rompicoglioni…chi è il prossimo? Che giornata di merda…
Gambe e labbra si mossero in contemporanea. Avanzò un primo passo verso l’indesiderato ospite con l’intenzione di avvicinarlo, chiedere spiegazioni riguardo a quell’invasione e rispedirlo dai suoi genitori.
Spero che te le diano loro le pedate nel culo che non ti posso dare io…
– Cosa diavolo ci f… –
Il resto delle parole rimase immobilizzato in un silenzio di pietra, la stessa in cui sembrava essersi trasformato il suo corpo paralizzato dalla sorpresa e da un’emozione nuova.
Terrore.
Il cassetto più alto del mobile della cucina, posto alla sua destra, gli si spalancò violentemente davanti, frapponendosi ad ostacolo tra lui e il bambino.
Prima che l’addome ne urtasse il legno chiaro, l’uomo fece di riflesso un lieve balzo all’indietro, per poi arrestare ogni moto rapito da quanto i suoi occhi stavano contemplando.
Li sentì inumidirsi mentre l’intero set di coltelli uscì dall’interno del cassetto, con una rapidità tale da non permettere quasi alle pupille di seguirne il movimento, come se esperte mani invisibili si stessero divertendo a farlo impazzire.
Le lame rimasero appese all’aria verticalmente, allineate l’una a fianco dell’altra a formare le più affilate sbarre di un’improbabile cella.
Sei appuntiti coltelli da bistecca, in compagnia di due coltellacci e un trinciante, sfoggiavano lame lucenti innanzi al volto pallido dell’uomo.
– Paura? –
La voce del bambino affiorò fredda e sottile a tagliare l’aria con la stessa semplicità con cui i coltelli avrebbero saputo, a breve, conficcarsi nel petto della vittima prescelta.
L’uomo avvertì il sudore freddo scivolargli sul corpo ancora umido sotto l’accappatoio.
Ogni suo muscolo continuò imperterrito lo stato di paralisi. Si contorse in una smorfia che sintetizzava dolore e sforzo mentre schiuse la bocca in un movimento rallentato e innaturale.
La sofferenza nel tentativo di sputare parole, che sapevano di supplica, venne resa vana dal bambino, più lesto e scaltro nel rompere di nuovo il silenzio che, come un macigno, pesava all’interno del locale.
Labbra sottili si tirarono in un sorriso maligno, una sorta di ghigno affilato pronto ad affondare il colpo nella carne tenera e gustosa del terrore.
– Non puoi avere paura. Dai…proprio tu… –
Lo sguardo dell’infante si sollevò a donare la profondità dei suoi occhi. L’uomo si perse in quel verde che gli pareva nel contempo suo e altrui. Affondò in quel colore acceso che sapeva di definitivo, un definitivo che non prometteva nulla di buono.
Cosa sei? Cosa cazzo vuoi da me?
Il bambino stava ora in piedi a meno di un metro da lui. All’uomo non fu permesso di cogliere il passaggio che portò quel corpo non ancora adulto a muoversi dal divano alla posizione attuale, come se l’atto dello spostamento fosse giunto nei suoi occhi mancante di alcuni fotogrammi. La percezione fu quella di vederlo scomparire per poi riapparire meno di un istante dopo davanti a lui, eretto e fiero nella sicurezza di cui era portatore.
– Davvero non capisci? Non sai ancora cosa voglio da te? –
Il braccino magro si alzò portandosi in linea con la spalla. Davanti al volto dell’uomo, nello spazio concesso tra le lame di due coltelli da bistecca, comparve nitida un’istantanea.
Vi si riconobbe immediatamente. La macchina fotografica l’aveva catturato mentre trafficava concentrato dietro allo schermo del computer dell’ufficio. Non aveva idea di chi poteva averla scattata né tanto meno come fosse finita in mano a quel…
Ma cosa diavolo sei?
Il ghigno del bambino si allargò ulteriormente.
Una nuova foto venne posta con disinvoltura all’attenzione dell’uomo. Questa volta i suoi occhi contemplarono un’immagine che doveva essere datata diversi anni prima. Un ragazzo di una ventina d’anni aveva il braccio sinistro sollevato verso una giovane figura femminile, che sorrideva in lontananza restituendogli il saluto.
Cristina. L’unica che era rimasta nei suoi pensieri come qualcosa che aveva un valore molto più alto di una bella scopata. Chissà cosa sarebbe successo se…
Terza polaroid.
L’uomo, fotografato in posizione frontale, stava seduto su una grande pietra ad osservare con sguardo rilassato qualcosa che proseguiva oltre l’obbiettivo che ne aveva imprigionato l’istante.
Il tramonto…
Accanto a lui, in piedi col peso dell’età a curvarne la postura, il vecchio contemplava il medesimo spettacolo.
D’improvviso si rese conto.
Nell’istantanea che nessuno poteva avergli scattato,
(l’avrei visto, cazzo! Stava davanti a me, l’avrei visto!)
pareva tutto chiaro e scontato e…
Non è possibile.
Non esiste!
NON PUO’ ESISTERE!
– Non capisci, eh? Ti fa paura quello che non comprendi, vero? –
Il tono del bambino era divertito, come se stesse raccontando una lieta notizia, quasi a cogliere, nell’espressione del volto che l’ascoltava, meravigliata felicità invece che atroce terrore.
Il respiro dell’uomo si fece corto e rapido, a seguire il ritmo accelerato delle palpitazioni cardiache.
Diede una nuova, ultima sbirciata alla foto. Negli occhi dell’uomo e del vecchio riconobbe, senza ombra di dubbio, la medesima appartenenza.
Quel vecchio non era altri che lui con trentacinque o quarant’anni di più sul groppo. Aveva trascorso più di mezz’ora a confrontarsi con una persona che non esisteva, perlomeno non ancora.
Nell’uomo si fece strada un’emozione che aveva il sapore di un pastone ottenuto mescolando panico e coraggio, e che aveva dato come risultato un piatto che profumava di disperazione.
– Non esisti. Ti prego, vattene –
Sulle labbra asciutte giunsero calde le prime lacrime che avevano tracciato, nel loro percorso, due lucidi solchi sulle guance pallide.
Il bambino puntò con rinnovato vigore gli occhi su quelli dell’uomo, inghiottendone ogni espressione e sentimento.
Tra le dita ancora sollevate affiorò una nuova fotografia.
Offuscata dalle lacrime, apparve l’immagine di un ragazzino in pantaloncini e canottiera blu, accovacciato a spingere un modellino di automobile rosso, assorto.
La Lotus…
Gli tornò memoria limpida delle infinite parentesi dedicate a inventare avventure, lui e quella macchinina. Ne aveva avute tante altre, ma la Lotus era unica. Magica.
A quei tempi credeva ancora che tutto fosse possibile, magie, incantesimi, miracoli. Ma quel bambino l’aveva lasciato rinchiuso in quella polaroid decidendo di non portarlo verso l’adulto che era divenuto.
Aveva sempre considerato la sua crescita, che l’aveva allontanato da quel bimbo ingenuo che era, come un’evoluzione positiva e necessaria.
Quel marmocchio fragile e senza difese non sarebbe arrivato da nessuna parte. Lui invece era arrivato…
Dove?
Dove cazzo era arrivato?
L’istantanea si dotò improvvisamente di dinamismo. Il fanciullo rannicchiato si levò in piedi facendo forza sulle ginocchia nude. Lasciò a terra la miniatura di automobile ed iniziò a frugare con frenesia nella tasca dei calzoncini.
Ne emerse una polaroid che il braccio teso in avanti mostrava all’ipotetico fotografo.
All’uomo si presentò innanzi un’immagine, se possibile, ancora più surreale di ciò che già i suoi occhi sfiniti stavano sopportando.
Dietro le file sospese dei coltelli il bambino, con sguardo di sfida, stava sfoggiando una foto al cui interno lo stesso bambino, con lo stesso sguardo di sfida, stava mostrando la stessa foto, al cui interno…
Ancora una volta l’uomo si riconobbe.
Quell’infante che era stato abbandonato nella stanza dei ricordi, era tornato a fargli visita pretendendo qualche spazio in più.
– Ci siamo quasi…ci siamo quasi. Ancora un pochino poi tutto sarà chiaro, nell’oscurità –
L’uomo era soffocato da tutte quelle emozioni fragili e irrazionali che lo stavano schiacciando come un insetto e alle quali non era e non si sarebbe mai abituato.
Voleva capire, comprendere.
La vita è solo ciò che è, ciò che si può conoscere.
– Sei me? Tu sei me, vero? –
Le sopracciglia del ragazzino si sollevarono in un’espressione di parziale dissenso.
– Non direi. Io non sono proprio te. Diciamo piuttosto che ho scelto di indossarti, allo stesso modo in cui poco fa quell’altro ha scelto di vestire il tuo corpo piagato dalle rughe e con qualche capello bianco in più –
Le falangi si mossero lentamente portando alla luce una nuova polaroid.
– Siamo venuti entrambi a reclamarti. Lui prima, io ora. Gli hai dato del coglione, ti rendi conto? Del coglione… –
Le labbra si distesero in un sorriso compiaciuto.
– Dio come ho goduto. Per un momento sei stato tu il mio dio…ora sono io il tuo dio –
Il ghigno si allargò al punto da lasciare emergere l’intera dentatura.
– Mi hai scelto tu, e di questo ti sono infinitamente grato. Mandando liberamente a cagare quell’altro, ti sei donato a me –
– Ti prego lasciami andare –
L’espressione del bambino si conservò allegra ma delusa nel ricevere la debolezza dell’uomo.
– Ora ti metti a pregare? Hai avuto il tuo momento per scegliere e l’hai fatto, tutto quello che ti occorreva per capire, ma non hai compreso. Ed ora ciò che era tuo…e Suo…grazie a te è mio –
Ultima polaroid.
La pietra grigia e liscia conservava con cura l’epitaffio che testimoniava al mondo la morte dell’uomo. Costui ne lesse distintamente nome, cognome, la data della sua nascita affiancata dalla data di quel giorno che per lui, era ormai fin troppo chiaro, sarebbe stato l’ultimo. Davanti alla lapide riconobbe la figura della madre inginocchiata in preghiera con un mazzo di fiori rossi e bianchi tra le mani.
– Le sue preghiere si perderanno nel vento, infrangendosi contro la mia porta –
Gli occhi verdi dell’uomo si levarono verso il soffitto, nel tentativo di oltrepassarlo.
– Dio ti prego salvami –
La risata fragorosa del bambino rimbalzò sulle pareti del monacale echeggiando acuta.
– Il sole è già tramontato ormai. È sceso oltre la linea del mare, nell’oscurità. Quello che c’è nel buio della notte nessuno lo sa, in vita. Ma esiste…ti accorgerai molto presto di come esiste! –
Il vibrare terrorizzato e frenetico del corpo dell’uomo rese quasi impercettibile il formicolio che di nuovo, dalla spalla, si era spostato a pungergli il petto.
Le lame dei coltelli ruotarono insieme a disporsi parallelamente al pavimento. Nove frecce puntate al cuore dell’uomo.
Due coltelli da bistecca scheggiarono come proiettili conficcandosi a pochi centimetri dallo sterno.
L’uomo avvertì i sensi e il respiro abbandonarlo poco per volta.
Tenendo i pugni ben stretti, chiuse con forza gli occhi per non vedere.
Attese le sette pugnalate mancanti, che non si fecero aspettare.
Quando il diavolo gli apparve nella sua vera forma, l’uomo era già morto.
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