Requiem di Natale – Marco Torti




Scott era seduto alla finestra, tra le mani aveva “Canto di Natale” di Charles Dickens; conosceva a memoria quella storia, ma ogni anno, nel periodo natalizio, voleva leggerla ancora. Che giorno era? Scott aveva perso la cognizione del tempo, in quella casa al centro del bosco dove si era ritirato a vivere anni prima. Fuori cadeva la neve e il sole era ammantato da un velo grigio che ne offuscava i contorni. Improvvisamente, il protagonista, udì un rumore provenire dalla cucina. Chiuse il libro e, lentamente, si diresse verso il suono che aveva osato interrompere l’eterno silenzio di quell’eremo. Giunto nell’altra stanza, l’uomo, rimase terrorizzato: una massa informe proveniente da chissà quale squarcio di tenebra, stava strisciando sul pavimento. Alla visione di Scott, ammesso che la quella “cosa” potesse vedere, la raccapricciante presenza si alzò in piedi, assumendo i contorni di un uomo avvolto in un manto nero e con un viso cinereo, privo di lineamenti. Quest’ultimo fece segno di “tre” con le dita della mano sinistra, quindi sparì, come non fosse mai esistito. Il protagonista pensò di stare per svenire, quando si accorse che non era ancora solo, in quella cucina: accanto a lui, vi era un bambino col volto ricoperto di graffi e uno sguardo duro, freddo come il ghiaccio. “Non sono gli occhi di un bimbo” pensò Scott, il quale seguì, come ipnotizzato, il piccolo ospite fino all’esterno, sul soffice manto innevato. Lontano, tra gli alberi del bosco, l’uomo vide due ragazzini tirarsi delle palle di neve e li riconobbe entrambi: uno era lui all’età di dieci anni, l’altra era Alice Conrad, la sua vicina di casa, della quale era da sempre innamorato. “Chissà che fine avrà fatto” pensò Scott tornando in casa, in parte confuso e in parte rattristato dalla visione avuta. Stava per aprire la porta, quando un lupo completamente nero con gli occhi inniettati di sangue, lo azzannò alla gola, lasciandolo privo si sensi. Al suo risveglio, l’uomo si trovò in una casa che non aveva mai visto dove, persone a lui note, erano intorno al camino raccontandosi storie e ridendo allegramente. Scott riconobbe i suoi vecchi compagni di liceo, quindi si chiese che lavoro facessero, se avessero una moglie, dei figli… se si ricordassero di lui. Per un istante, il protagonista, volle unirsi all’allegra compagnia, ma esitò e, uscito dalla porta dell’abitazione, si ritrovò nel proprio salotto, come se nulla fosse accaduto. Vide una donna seduta sul divano, indossava un abito da sposa completamente nero e sembrava che stesse piangendo. La ragazza si alzò, quindi accompagnò Scott all’esterno indicandogli una lapide nascosta parzialmente dalla neve; l’uomo immaginava a chi appartenesse la pietra tombale, così s’accasciò a terra e iniziò a piangere, consapevole che sarebbe morto lì, solo, in quella bianca desolazione. Improvvisamente, alcune persone disposte in fila indiana, si avvicinarono alla lapide, ognuna poggiadovi accanto un fiore. Alcune di esse tenevano in mano un libro e Scott riconobbe di quale si trattasse: l’aveva scritto lui. Sì, perché, il protagonista, era uno scrittore di libri horror ritiratosi in totale isolamente per dedicare la propria vita all’attività di romanziere, senza interruzione o distrazione di alcun genere. Era ancora intento a osservare stupefatto la schiera dei suoi futuri ammiratori intenti a porgergli omaggio, quando, alle sue spalle, sopraggiunsero le quattro “guide” che l’avevano condotto in quel viaggio tra passato, presente e futuro. Scott sapeva chi erano in realtà: facevano parte dei libri che aveva scritto. In quell’istante, il protagonista, capì che non sarebbe mai stato solo, nonostante l’isolamento: c’erano i personaggi che aveva creato a tenergli compagnia e per lui, questo, era più che sufficente. Lo scrittore, ricordandosi che giorno era, augurò alle proprie guide “Buon Natale”, quindi rientrò in casa; fuori, inatanto, continuava a cadere la neve.


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