Racconto: La Domenica Horror – La talpa nel parco di Tomas Sbrissa


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LA TALPA NEL PARCO
Il suo naso annusava alacremente; la lingua, livida di poltiglia e insetti, annaspava alla ricerca di quella sensazione di viscidume, frescura, sottigliezza e strisciamento viscerale. La terra gli oberava le narici ripiene di muco da mesi. Le unghie scavavano, ma da anni erano soltanto dei rimasugli di cheratina così come le falangi assomigliavano a informi mucchietti di carne soda rattrappita. Per questo aveva imparato ad usare naso, lingua e denti come Leky, Esdie e Bannie. E forse per questo erano rimasti solo loro tre con lui, o almeno così pensava… pensava che gli altri avevano avuto paura nel vederlo acuire alcuni dei cinque sensi e avevano capito che aveva bisogno di qualcos’altro oltre che quei semplici…
… la lingua lambiva la terra scavata con i denti e le mani come il pelo che si appresta a tingere la tela quando lo trovò; repentinamente il verme penetrò nella terra sfuggendo per un attimo a quel radar umano che non era altro che la bocca di Greif. Non ci riuscì. Il ragazzo ventenne lo inghiottì come uno spaghetto succulento, gustandosi il sapore della carne viva e cruda. Ma la fame non cessava, e da anni qualcosa lì sotto si allungava ogni volta che provava un brivido di eccitazione o malumore, e non sapeva più come gestirlo. Era dannatamente frustrante.
Le tre talpe lo raggiunsero. Leky aveva trovato Greif dentro un buco nel quale era stato seppellito prematuro, appena nato; da allora gli aveva insegnato come muoversi e come procurarsi il cibo nell’entroterra, introducendolo nella loro colonia nella quale era sopravvissuto per lo stesso motivo per il quale i genitori se n’erano sbarazzati: una menomazione cerebrale l’aveva reso diverso, meno umano, consentendogli di assuefarsi in situazioni anormali.
Nonostante volesse continuare la caccia sapeva che quella era l’ora di respirare; negli ultimi dieci anni era perennemente ansante e tremebondo sicché due volte al giorno raggiungeva la crosta superficiale attento a non superarla né a farsi vedere; dal basso verso l’alto come un’anima che dall’inferno raggiunge il paradiso per prendere una boccata d’ossigeno. Quello era il momento in cui riapriva gli occhi (che non poteva usare in quel buio immenso) e, lentamente, salendo verso la superficie, risentiva l’umano che era. Leky lo accompagnò. Come al solito Greif aspettò venti centimetri sotto la terra; la talpa creò come soleva fare la collinetta di terra e Greif poté rilassarsi, inspirare e guardare fuori. Udiva i passi dei suoi simili ovattati; l’usare nuovamente la vista gli inibiva il senso che più aveva acuito negli anni: l’udito.
Quando Leky ebbe finito il ragazzo alzò la testa; il riverbero di petali violacei l’avvolse. Un profumo mielato, una sensazione liberatoria, di frescura e leggerezza lo pervase come un turbine di aria. Stava osservando un fiore viola su uno sfondo ghiaioso a righe verdi e azzurre… un fiore sopra una panchina verde sotto un cielo luminoso su un vialetto di ghiaia. Dove si trovava in quel momento? Se lo chiese restando ad osservare quei vividi petali violacei.
Leky lo morse nel mezzo della sua alienazione temporale… quello era il segnale di andare. Eppure quel fiore era dannatamente ameno, troppo per poter distoglierne lo sguardo così frettolosamente… Leky lo morse nuovamente, la pancia gli brontolò di fame… ma il luccichio era favoloso, sfavilli violacei riverberavano nelle pareti della buca e lui aveva così fame e Leky in fin dei conti era…
Il fiore si mosse, il sole accecò temporaneamente Greif il quale si ritrasse dai raggi. Esdie e Bannie gli fecero da scudo e con languida leggiadria il ragazzo tornò sottoterra alla caccia di vermi. Un ultimo sguardo alla superficie gli mostrò quel fiore librarsi su una scia nera. Chiuse gli occhi e girò il timone per la prima delle due volte di quel giorno.