La Vendetta di Giuditta – Ugo Perugini




Sono passati quasi sette mesi. E da allora nessuna delle due ne ha mai parlato all’altra. Nessuna ha avuto il coraggio di farlo. Anch’io, come madre, non me la sono sentita. Forse, avrei dovuto. Lo psichiatra sostiene che sia necessario continuare il suo lavoro, cercare cioè di rivivere mentalmente il fatto traumatico e le sensazioni più spiacevoli provate in quel momento per superarne definitivamente le conseguenze negative e l’impatto psicologico. Avere il coraggio di passarci in mezzo: lo confesso, non ce l’ho fatta. Guardo Emma negli occhi, vedo quello sguardo smarrito, da animale ferito, che mi guarda alla ricerca di un po’ di tenerezza o di pietà e non ce la faccio. Sento montare in me una rabbia enorme. Altro che amore. Quello che si muove dentro di me è odio, odio allo stato puro. Non dimenticherò fin che vivrò il volto di quel ragazzo. La sua aria da bullo di periferia, quello sguardo arrogante. Io, sì, la rivedo ogni momento la scena. Non lascia mai la mia mente che me la ripropone come una moviola impazzita. La vedo Emma che cerca di sfuggirgli. Vedo che lui la insegue nella via buia dietro casa. Provo l’angoscia di mia figlia quando si accorge di non avere più via di scampo. Cerca di arrampicarsi sopra dei bidoni della spazzatura ma lui la afferra per le gambe e la fa cadere a terra. Non posso fare a meno di vedere quelle sue mani mentre sollevano la gonna, le strappano le mutandine. Né mi sfugge quello che succede dopo, mentre l’urlo di terrore di Emma le muore in gola soffocato dalla sua mano. Lui, il grand’uomo, si abbassa i pantaloni in un gesto rapido e osceno, volgare e prepotente. Immagino che si metta a ridere. Non che ce ne sia bisogno. Ma è per dimostrare che lui non ha paura. Che se vuole può fare tutto. E poi è lui l’uomo, lei una donna, meglio un corpo di donna, disponibile per dare un po’ di piacere. Piacere misto a potere. “Taci, troia!” “Prendi, troia!” so che le dice qualcosa del genere, per umiliarla ancora di più, mentre cerca di penetrarla con violenza. Emma piange, non capisce e si sente vinta, distrutta, carne da macello. La capisco perché ci sono passata anch’io. Io questa scena la rivivo per alimentare il mio odio. Non ho alcuna intenzione di servirmene perché rappresenti una catarsi. Sarebbe impossibile, assurdo! A Emma non lo dico ma voglio coltivare questo odio sordo che cresce in me.
E’ un bel libro d’arte. E mi piace guardarlo. Amo soprattutto le opere di Artemisia Gentileschi. Osservare quel quadro, quello famoso, dove Giuditta mostra come un trofeo la testa di Oloferne, mi fa sentire meglio… mi libera dalle mie angosce. Respiro profondamente, sento che in me entra un po’ di quella pace che ho perduto. No. Non ho intenzione di condividere nemmeno queste emozioni con Emma. Non, per ora, almeno!
Quello che è insopportabile è che lui ora è libero. Continua la sua vita come se nulla fosse accaduto. L’ho intravisto qualche volta che smonta dalla sua moto. Gesto atletico, jeans attillati, giubbotto che nasconde una maglietta aderente sotto la quale guizzano i suoi muscoli da palestrato. Si toglie il casco, e libera i lunghi capelli ricci che gli vorticano sulla testa come le spire di viscidi serpenti sulla testa della Gorgone. Odio il suo sguardo, sicuro di sé, quel suo sorriso beffardo, la smorfia della sua bocca. Quel suo guardarsi intorno come chi sa di essere ammirato e desiderato.
Abbiamo preparato l’albero di Natale. Emma ha già deposto alcuni pacchettini sotto di esso. A me manca il regalo più importante. Non sono sicura di poterlo fare. Devono prima accadere certe cose. Ma farò il possibile che accadano. Ho ancora qualche giorno di tempo.
E intanto lavoro. In questi ultimi giorni prima delle festività, l’attività nel negozio è molto aumentata. Al centro di bellezza sono cresciuti i clienti che cercano di rimettersi in forma e soprattutto quelli che vogliono una abbronzatura da montagna. Nel mio reparto, dove ci sono i lettini solari, è un viavai continuo. Donne, uomini, giovani e meno giovani alla ricerca del colorito sano sotto il quale nascondere il pallore della loro pelle. Cerco di sorridere a tutti. E’ il mio lavoro. Ma l’animo non è per nulla sereno. Ho perso il senso della vita. Mi accorgo che ogni cosa che faccio è una ripetizione meccanica di gesti. Il mio corpo è diventato niente più che un automa che procede per forza di inerzia. Ho un solo, folle desiderio nella mia mente. Che coltivo con caparbia voluttà. E vivo perché possa avverarsi da un momento all’altro.
Quel suo muoversi da bestia rapace lo rende unico. L’ho notato subito quando ha parcheggiato la moto davanti al mio negozio. Ho avuto un sussulto. Nel mio corpo è tornato a fluire il sangue, a fiotti, a ondate, fino a farmi tremare leggermente le mani. Ma devo restare calma. E’ il mio regalo di Natale. Entra deciso nella sala dei lettini abbronzanti. Gli fornisco le indicazioni necessarie per una corretta esposizione alle radiazioni ultraviolette. Gli mostro lo spogliatoio e attendo che si distenda in quella tomba luminosa e metallica. Sorrido. Stavolta non è un sorriso nervoso. E’ un sorriso di soddisfazione. Lui si distende mettendo in mostra la massa muscolare dell’addome come un galletto pronto allo spiedo. “Chiuda gli occhi e si rilassi!” gli dico con gentilezza mentre preparo il fil di ferro che faccio scorrere rapidamente tra le mie mani e misuro ad occhio quanto me ne occorra per l’operazione che intendo portare a termine…
Sono tornata a casa con il mio regalo di Natale per Emma. Lei era in soggiorno davanti al televisore. Quando mi ha visto mi ha abbracciato. “Scusa il ritardo, ho dovuto fare delle pulizie extra!”. Appoggio la scatola di latta con stelline colorate e disegni natalizi, che sembra il contenitore di un panettone. “Un altro panettone!” esclama Emma delusa. “No!” le rispondo sorridendole. “E’ un regalo che ti farà felice!”


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