I morti di Natale – Francesco Rinaldi
Prima arrivarono le mosche. Poi le larve. Alla fine arrivarono i vermi.
I loro occhi brillarono di gioia quando trovarono quei due cadaveri. Era la fine dell’autunno e le piogge avevano lasciato il posto alle prime nevicate.
Passarono altre festività, ma nel cuore dei vermi restò il ricordo di quel Natale.
I loro occhi brillarono di gioia quando trovarono quei due cadaveri. Era la fine dell’autunno e le piogge avevano lasciato il posto alle prime nevicate.
Passarono altre festività, ma nel cuore dei vermi restò il ricordo di quel Natale.
Accese una sigaretta guardando le luci delle decorazioni natalizie che brillavano sulle montagne circostanti. Venivano dalle case dei paesi vicini.
Stava arrivando il Natale ma nel calendario della sua testa c’era solo una data che contava, quella della sua partenza. Non doveva avere fretta, doveva aspettare il momento giusto, essere certo che le acque si fossero calmate.
In lontananza, oltre la valle, guardò le luci della città che si riflettevano sulla coltre di nuvole. Era il posto dove aveva commesso il suo crimine. Gettò il mozzicone e rientrò nella cascina. L’aveva ristrutturata a dovere. Aveva ricoperto le pareti interne con delle assi di legno. Aiutavano a non disperdere il tepore della stufa. La teneva accesa solo durante la notte. Non voleva che il fumo fuori dal camino potesse attirare l’attenzione. Nessuno doveva accorgersi che qualcuno abitava in quella vecchia cascina.
Anche quella sera aveva bevuto parecchio. Barcollando aprì la porta dello sgabuzzino. I soldi della refurtiva erano al loro posto, nello zaino da montagna. Non erano molti ma potevano bastare per andare via e magari per aprire un piccolo locale da qualche parte. Guardò le cartoline appese al muro accanto alla branda. Cartoline di spiagge e di isole lontane. Si addormentò con la luce della lampada ancora accesa.
Ma era un sonno agitato. C’erano rumori provenienti dalla boscaglia che continuavano a svegliarlo. Ombre che tutte le notti ritornavano.
Quando arrivò la sera prese la strada del bosco con gli scarponi che affondavano nella neve fresca. Stava andando giù in paese a fare la solita bevuta. Non sapeva che stava cominciando la sua ultima notte in mezzo a quelle montagne.
Andò al bar alla fine del paese, frequentato sopratutto da manovali e boscaioli. Ordinò della birra e si mise a bere con la testa china sul bancone. Non parlava mai con nessuno. Meglio stare alla larga dalla gente, dagli amici e dalle donne. Sono tutte fregature.
Alla televisione c’era il notiziario serale. Non c’era niente che gli interessava sentire. Dovette però fare attenzione a uno dei titoli di testa. In poche settimane avrebbero ritirato la valuta in circolazione. Era stato programmato il cambio della moneta corrente. Così la sua refurtiva stava diventando carta da macero. Banconote dai numeri sicuramente registrati. Cercare di cambiarle sarebbe stata una follia. Ordinò un’altra birra, poi un’altra e poi un’altra ancora. Quei soldi erano il suo unico punto di riferimento.
Tornò a casa attraversando il bosco. La neve stava ghiacciando. Arrivato alla cascina, sfinito dall’alcool e dal freddo, crollò sulla branda.
Nel cuore della notte, ancora una volta si svegliò. Andò alla finestra e vide un ombra muoversi nella boscaglia. Non c’erano dubbi, la’ fuori c’era qualcuno. Corse nello sgabuzzino dove teneva lo zaino. Stava cercando la pistola, quella che aveva usato per la rapina. Nello zaino non c’era. Cercò di ricordare dove l’aveva lasciata. Poteva essere solo in un posto: nell’autovettura nascosta dietro alla cascina. Uscì con torcia in mano e tirò via il telone grigio e la sterpaglia che coprivano la macchina.
Erano ancora lì, sui sedili anteriori, i due amici con cui aveva fatto la rapina. Ormai ridotti a scheletri. E si rese conto di quanto tempo era passato.
La pistola era sul sedile posteriore, dove l’aveva lasciata dopo aver esploso quei due colpi di rivoltella a tradimento nella nuca dei suoi complici, poco dopo la rapina, appena raggiunto quel nascondiglio.
Sentì un rumore alle sue spalle. Con la rivoltella in pugno puntò la luce della torcia verso il bosco. Sopra un sasso c’era come un grosso gatto dal pelo marrone maculato e dalla lunghe orecchie. Si guardarono fissi negli occhi per alcuni secondi. Poi il felino scappò via. Si ricordò di aver visto qualcosa di simile su un settimanale illustrato. Doveva trattarsi di una lince. C’era qualcosa di incredibile in quei grandi occhi gialli.
Rientrò nella cascina. Prese quattro mazzette di banconote di grosso taglio e le mise nelle tasche interne del giubbone. Rovesciò per terra il resto della refurtiva e riempì lo zaino con quella poca mercanzia che gli rimaneva. Era pericoloso portare tutti quei soldi e probabilmente non avrebbe fatto in tempo a spenderli.
Tornò alla macchina. Si ricordò che nel cofano teneva una tanica di benzina. Dietro al parabrezza i due teschi sembrarono guardarlo. Ma non dissero nulla.
Cosparse di benzina i sedili dell’autovettura e poi tutta la casa. Guardò il fuoco avvolgere la cascina, poi la macchina, e quando le fiamme raggiunsero l’abitacolo sembrò per un attimo che i due scheletri tornassero a muoversi.
Era arrivato il momento di andare. Attraversò il bosco e poi prese il sentiero che scendeva a valle. Le decorazioni natalizie sulle montagne circostanti lampeggiavano a intermittenza i loro mille colori. Dietro di lui, ormai in lontananza, le fiamme del passato bruciavano ai margini del bosco.
Arrivò alla stazione ferroviaria alle prime luci dell’alba. La biglietteria aveva appena aperto. Acquistò un tagliando di sola andata. Andò al bar a prendere un caffè. Mentre aspettava l’arrivo del treno tirò fuori dalla tasca le sue cartoline. E passò la punta delle dita sulle onde del mare che bagnavano la spiaggia. Fuori cominciò a suonare la campanella del passaggio a livello.
Stava arrivando il Natale ma nel calendario della sua testa c’era solo una data che contava, quella della sua partenza. Non doveva avere fretta, doveva aspettare il momento giusto, essere certo che le acque si fossero calmate.
In lontananza, oltre la valle, guardò le luci della città che si riflettevano sulla coltre di nuvole. Era il posto dove aveva commesso il suo crimine. Gettò il mozzicone e rientrò nella cascina. L’aveva ristrutturata a dovere. Aveva ricoperto le pareti interne con delle assi di legno. Aiutavano a non disperdere il tepore della stufa. La teneva accesa solo durante la notte. Non voleva che il fumo fuori dal camino potesse attirare l’attenzione. Nessuno doveva accorgersi che qualcuno abitava in quella vecchia cascina.
Anche quella sera aveva bevuto parecchio. Barcollando aprì la porta dello sgabuzzino. I soldi della refurtiva erano al loro posto, nello zaino da montagna. Non erano molti ma potevano bastare per andare via e magari per aprire un piccolo locale da qualche parte. Guardò le cartoline appese al muro accanto alla branda. Cartoline di spiagge e di isole lontane. Si addormentò con la luce della lampada ancora accesa.
Ma era un sonno agitato. C’erano rumori provenienti dalla boscaglia che continuavano a svegliarlo. Ombre che tutte le notti ritornavano.
Quando arrivò la sera prese la strada del bosco con gli scarponi che affondavano nella neve fresca. Stava andando giù in paese a fare la solita bevuta. Non sapeva che stava cominciando la sua ultima notte in mezzo a quelle montagne.
Andò al bar alla fine del paese, frequentato sopratutto da manovali e boscaioli. Ordinò della birra e si mise a bere con la testa china sul bancone. Non parlava mai con nessuno. Meglio stare alla larga dalla gente, dagli amici e dalle donne. Sono tutte fregature.
Alla televisione c’era il notiziario serale. Non c’era niente che gli interessava sentire. Dovette però fare attenzione a uno dei titoli di testa. In poche settimane avrebbero ritirato la valuta in circolazione. Era stato programmato il cambio della moneta corrente. Così la sua refurtiva stava diventando carta da macero. Banconote dai numeri sicuramente registrati. Cercare di cambiarle sarebbe stata una follia. Ordinò un’altra birra, poi un’altra e poi un’altra ancora. Quei soldi erano il suo unico punto di riferimento.
Tornò a casa attraversando il bosco. La neve stava ghiacciando. Arrivato alla cascina, sfinito dall’alcool e dal freddo, crollò sulla branda.
Nel cuore della notte, ancora una volta si svegliò. Andò alla finestra e vide un ombra muoversi nella boscaglia. Non c’erano dubbi, la’ fuori c’era qualcuno. Corse nello sgabuzzino dove teneva lo zaino. Stava cercando la pistola, quella che aveva usato per la rapina. Nello zaino non c’era. Cercò di ricordare dove l’aveva lasciata. Poteva essere solo in un posto: nell’autovettura nascosta dietro alla cascina. Uscì con torcia in mano e tirò via il telone grigio e la sterpaglia che coprivano la macchina.
Erano ancora lì, sui sedili anteriori, i due amici con cui aveva fatto la rapina. Ormai ridotti a scheletri. E si rese conto di quanto tempo era passato.
La pistola era sul sedile posteriore, dove l’aveva lasciata dopo aver esploso quei due colpi di rivoltella a tradimento nella nuca dei suoi complici, poco dopo la rapina, appena raggiunto quel nascondiglio.
Sentì un rumore alle sue spalle. Con la rivoltella in pugno puntò la luce della torcia verso il bosco. Sopra un sasso c’era come un grosso gatto dal pelo marrone maculato e dalla lunghe orecchie. Si guardarono fissi negli occhi per alcuni secondi. Poi il felino scappò via. Si ricordò di aver visto qualcosa di simile su un settimanale illustrato. Doveva trattarsi di una lince. C’era qualcosa di incredibile in quei grandi occhi gialli.
Rientrò nella cascina. Prese quattro mazzette di banconote di grosso taglio e le mise nelle tasche interne del giubbone. Rovesciò per terra il resto della refurtiva e riempì lo zaino con quella poca mercanzia che gli rimaneva. Era pericoloso portare tutti quei soldi e probabilmente non avrebbe fatto in tempo a spenderli.
Tornò alla macchina. Si ricordò che nel cofano teneva una tanica di benzina. Dietro al parabrezza i due teschi sembrarono guardarlo. Ma non dissero nulla.
Cosparse di benzina i sedili dell’autovettura e poi tutta la casa. Guardò il fuoco avvolgere la cascina, poi la macchina, e quando le fiamme raggiunsero l’abitacolo sembrò per un attimo che i due scheletri tornassero a muoversi.
Era arrivato il momento di andare. Attraversò il bosco e poi prese il sentiero che scendeva a valle. Le decorazioni natalizie sulle montagne circostanti lampeggiavano a intermittenza i loro mille colori. Dietro di lui, ormai in lontananza, le fiamme del passato bruciavano ai margini del bosco.
Arrivò alla stazione ferroviaria alle prime luci dell’alba. La biglietteria aveva appena aperto. Acquistò un tagliando di sola andata. Andò al bar a prendere un caffè. Mentre aspettava l’arrivo del treno tirò fuori dalla tasca le sue cartoline. E passò la punta delle dita sulle onde del mare che bagnavano la spiaggia. Fuori cominciò a suonare la campanella del passaggio a livello.
Quando i vermi videro le fiamme pensarono che fossero delle luminarie.
E con gli occhi che brillavano di nostalgia tornarono intorno a quella casa, per festeggiare il ricordo di quel Natale lontano.
E con gli occhi che brillavano di nostalgia tornarono intorno a quella casa, per festeggiare il ricordo di quel Natale lontano.
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